IL RAMO CADETTO di Nicola NATALE*

Essere meridionali significa capire
di trovarsi lontano dai destini del mondo.
Sentirai  il rullìo ma il tamburo batterà sempre lontano.


IL RAMO CADETTO

di Nicola Natale*

 “Il leone di San Marco ha un libro, quel libro è aperto per i veneziani e chiuso per gli altri”.  
In un  bus di città  un padre spiega al figlio che i veneziani sono migliori degli altri poiché hanno viaggiato e commerciato dappertutto, il che è vero,  e i loro soldati incutevano paura. 
Ma cosa penserà quel bambino quando sarà adulto e come reagirà alla predica buonista della sua maestra, posto che questa ne sia davvero convinta? 
Sentirà veramente i suoi connazionali del Meridione “Fratelli d’Italia”? 
Difficile crederlo. 
Il mezzo pubblico è un luogo ideale per impartire lezioni indelebili ad un figlio. 
In quello stato di sospensione temporanea dagli impegni i messaggi vengono recepiti profondamente, ci si libera delle maschere e viene fuori il nostro vero volto. 
Così i fiori del male si perpetuano e l’homo homini lupus del filosofo Thomas Hobbes assume tutta la sua profondità interpretativa dell’umano esistere.
Nicola NATALE
Dobbiamo prendere atto che c’è del razzismo in ognuno di noi: in misura superiore di quanto vorremmo ammettere.
C’è una scala ideale su cui si posizionano gli esseri umani: chi sta al gradino superiore si sente e si crede meglio di quelli che sono ai gradini più bassi. 
Questa scala che esiste solo nelle nostre teste ha tuttavia potentissimi e deleteri effetti reali. 
Nessuno ne è esente ed è più facile cedere agli istinti naturali e ai retaggi culturali che obbedire ai dettami etici o - aggiungerei – al comunissimo buon senso. 
Per quanto siano state brillantemente definite le relazioni psicologiche che inducono il singolo a guardare con istinto predatorio il suo simile più debole e il gruppo a irriderlo sistematicamente, la maggior parte di noi non sa superarle. 
Da questi due tratti psicologici fondamentali dell’essere umano si dipartono, a mio avviso, le spinte razziste che poi trovano alimento in ragioni altre, molto spesso di natura economica. 
Delle caratteristiche con cui inquadriamo l’altro da noi uno dei dati più importanti è quello territoriale, subito dopo quello anzidetto. Come fare a convincersi che un ingegnere informatico indiano può essere meglio di un americano? 
C’è un moto di incredulità interno, di stizza a volte, prima scintilla del razzismo. 
Ci sono ragazzi del Bangladesh che hanno fatto una fortuna prima spostandosi in America e poi fondando nel loro paese di origine dei call center, i cui servizi, più competitivi sul fronte dei costi del personale, sono rivenduti agli americani. 
Un giovane meridionale sa che simili attività non possono esser fatte anche qui: il sud non può cambiare, non sa cambiare, eternamente sospeso tra sviluppo e miseria, fra genialità e arretratezza. 
Quindi bisogna emigrare. 
Gli stessi meridionali rimangono annichiliti dall’effetto turbo dell’ICT (Information Communication Tecnology) e si chiedono se mai questa ondata positiva investirà il Sud.
Se lo spostarsi per lavoro è un indubbio arricchimento personale e professionale esso ha costituito e costituisce una delle prime cause dell’impoverimento del Sud e della sua vocazione alla subalternità, con tutto quello che ne può conseguire in termini di razzismo. 
E’ infatti cruciale il fatto che ad essere discriminate e quindi oggetto di razzismo sono quasi sempre le popolazioni subalterne, cioè quelle che sono costrette a spostarsi: una condizione oserei dire oggettiva. 
Che forse ha trovato una unica eccezione nello sterminio degli ebrei che, nella propaganda nazista, erano individuati come le ricche élites che mortificavano l’orgoglio tedesco. 
Anche loro però a suo tempo si erano trasferiti. 
Anche loro, non appena ne hanno avuto la possibilità, non si sono dimostrati buoni fratelli dei palestinesi. Sono questi ultimi i cugini di campagna degli israeliani, il loro attuale ramo cadetto. 
I buoni, insomma, non sono tranquillamente catalogabili nei nostri schemi mentali. 
Per individuare chi ha torto e chi ragione non possiamo ragionare per etnie, meglio, non possiamo ragionare affatto in questi termini. Chi stabilisce chi ha torto e chi ragione? 
E in base a quali criteri? 
E ciò che è bene Fedro, e ciò che non è bene. Dobbiamo chiedere ad altri di dirci queste cose?” ribadì Robert Maynard Pirsig all’inizio de "Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta".
La mancanza di principi oggettivi e la parzialità insista in ogni azione umana suggerirebbero di lasciar perdere i bilancini dei tribunali e guardare le cose con senso pratico.
Guardare avanti e pensare a come trovare velocemente un compromesso fra le opposte esigenze, questo si dovrebbe fare. Invece si utilizza il diritto nelle assemblee internazionali per giustificare legalmente inevitabili atti di supremazia politica o economica o di qualsiasi altro genere o si fa morire tutta la causa del contendere tra le ragnatele del troppo tempo trascorso. 
Una colossale escalation dell’ingiustizia. 
Un essere umano è il prodotto dei suo geni e dei condizionamenti culturali e familiari, ma è prima di tutto un essere umano meritevole di rispetto, da qualsiasi parte del mondo provenga.
Ce lo diciamo mille volte al giorno eppure la confezione ci fa perdere sempre di vista il contenuto, il bianco, in certi ambienti, è  di moda più del nero o del giallo. 
Succede agli esseri umani ciò che capita alle merci: l’immagine regna sovrana.

LA PICCOLA DIASPORA

Ci si deve innanzitutto chiedere se gli episodi di razzismo contro i meridionali rappresentino una pagina dolorosa del nostro passato più o meno recente o se essi siano ben lontani dallo scomparire.

Lo spostamento dal Meridione in effetti continua. 

Mandavamo operai, ma non bastano più:  servono anche le menti. E se per i lavori più ingrati ci sono ora gli extracomunitari, per tutti gli altri per cui se ne avverte il bisogno ci sono i “disoccupati meridionali”. 
Benché l’immigrazione interna sia ormai quantificata in circa 50-70mila unità annue e quindi considerata trascurabile dai governi succedutisi in questi ultimi anni, siamo in presenza di un fatto economicamente e socialmente importante. 
In realtà lo smembramento di risorse importanti del Meridione d’Italia continua e la tendenza oramai secolare a fornire materiale umano perdura. 
Nello spostamento per lavoro gli elementi di possibile razzismo aumentano a dismisura poiché l’evidenza dei trasferimenti settimanali o mensili, la subalternità dei ruoli e/o dell’inserimento nel tessuto sociale, la nostalgia dei luoghi e delle abitudini, anche alimentari, ripropongono ogni giorno il tema dello sradicamento. Fortunatamente i casi di integrazione corretta sono la maggior parte, e propendere per una società del “tutti e tutto a casa propria” è francamente ridicolo. 
Esiste tuttavia una discreta componente che paga, in termini psicologici, sociali ed economici la diversa provenienza geografica  e  il discorso si pone a più livelli, non solo per l’emigrazione dei poveri cristi. 
Il Sud vive in questo momento un altro tipo di razzismo, diverso da quello tristemente conosciuto della emarginazione e dello sfruttamento.
Razzismo e discriminazione coinvolgono infatti anche medici, professionisti, parlamentari e industriali del Sud. 
Tutti hanno un microcosmo di riferimento in cui c’è un nucleo che detta la legge. 
A quel nucleo è molto spesso impossibile per loro accedere. Esistono centri decisionali, politici, economici, e persino ecclesiastici in cui personaggi del Sud, anche dotati, non entrano. E se entrano, sono spesso  costretti a seguire linee molto più “conservatrici” di quanto non farebbe un loro collega. 
E’ un caso che di tutti i (pochi) centri di ricerca italiani la quasi totalità è al Nord, siano essi pubblici - come lo sono ancora in gran parte – o  privati? 
In effetti che senso ha farli al Sud dove non ci sono industrie avanzate che ne possano sfruttare i brevetti o dove il mercato non è maturo o dove entrerebbero rapidamente logiche clientelari di bassa lega? 
Eppure la disoccupazione intellettuale è uno dei tratti distintivi del Meridione d’Italia. 
Trasferire i risultati di una ricerca non è come trasferire prodotti, la distanza dai centri di sviluppo o dai mercati non è in questo caso essenziale. 
Immaginiamo con internet, poi….eppure….
Il razzismo è anche fissare centri di controllo o istituzioni europee perennemente al di fuori delle nostre aree. 
E’ costruire l’alta velocità ferroviaria tra Milano e Torino quando ancora non si finisce la Salerno-Reggio. 
E’ non avere strade decenti tra due capoluoghi di provincia. 
E’ costruire strade che si discostano beffardamente  dal progetto originario riducendo la carreggiata e fare tutto questo dopo anni di battaglie e decine di morti, senza che nessuno inquisisca i responsabili. 
E’ sentirsi dire che i minori servizi sono la conseguenza della scarsa consistenza demografica quando paesini del Nord di tre-quattromila anime sovrabbondano di strutture pubbliche, dagli ospedali alle scuole…. 
E’ vedere i treni vecchi che arrivano al Sud e quelli nuovi che funzionano al Nord. 
E’ notare, senza poter far nulla,  che in alcuni paesi tolgono prima la biglietteria ferroviaria, poi addirittura le fermate per cui i collegamenti con il resto del mondo sono sempre meno rapidi…. Per non parlare degli aeroporti. 
E’ constatare come i media ripropongano insistentemente una sola faccia del Sud, perennemente quella poco sviluppata, ancora attaccata alle tradizioni. 
E’ soggiacere alla presunta marginalità degli eventi positivi che qui accadono poiché raramente questi hanno la ribalta televisiva nazionale. 
E’ piegarsi alla dimensione ossessivamente calata sugli aspetti deteriori della nostra realtà.  
E’ sopportare che l’intelligente di turno ti spieghi  per l’ennesima volta come e perché non siamo sviluppati, fornendo al contempo la ricetta giusta per far funzionare tutto quanto. 
E’, infine, essere costretti ad annuire quando tutto il proprio essere pensa di gridare che non è così, che cento anni e passa di sottosviluppo, con tutto quello che è accaduto, non possono essere spiegati, con la posizione geografica, con la storia economico-sociale e con altre prodezze interpretative. 
La ragione dice che non può essere solo così. 
Che ci deve essere dell’altro, poiché nulla avviene per caso. Centocinquant’anni di "ottimi" interventi statali per il Meridione non è possibile abbiano lasciato solo clientelismo, mafia, corruzione a tutti i livelli, opere pubbliche pessime, industrie decotte ancor prima di partire, università, scuole ed ospedali meno efficienti di quelle settentrionali. 
La deprecabile  arrendevolezza dei meridionali è forse la sconsolata rassegnazione ad un ordine di cose che non si può cambiare? 
E’ la coscienza che qui saremmo sempre fratelli, anzi cugini di campagna, ma purché rimaniamo un passo indietro? 
Che dovremo accontentarci del livello dei nostri servizi e dei nostri angusti spazi economico-commerciali? 
Che questi saranno sempre minori quantitativamente e qualitativamente di quelli a nord del Tevere? 
Può, ragionevolmente tutta questa diversità di diritti ed occasioni tra Sud e Nord essere solo frutto dell’individualismo spinto dei meridionali e della loro presunta ignavia, accidia o ingordigia, che pure esiste?

L’EMIGRAZIONE INTELLETTUALE

Figli di un dio minore allora. 
Costretti a far valere le proprie capacità, quando se ne hanno, fuori dal Meridione. 
Condizione ineludibile se è vero, come è vero, il motto latino “nemo propheta in patria” ma allora perché il movimento è unidirezionale e la maggior parte contempla il Sud solo come luogo del “buen retiro”?
Come una specie di Puerto Escondido dell’Europa? 
Chiedo quanti sono gli industriali o meglio i “padani” che accetterebbero un trasferimento al Sud? 
“No…. e che ci vengo a fare a Bari, a Napoli o a Reggio?”.
Non molti anni fa un industriale piemontese, Carlo Miroglio, diceva che sarebbero dovuti passare sul suo cadavere prima di convincerlo ad aprire uno stabilimento al Sud. 
Poi lo stabilimento l’ha fatto, ma a spese dello Stato, e ora la fabbrica funziona a ciclo continuo, butta giù record mondiali di produzione. 
Circa 350 operai, ex braccianti agricoli, camerieri, piccoli imprenditori senza fortuna,  più o meno felici e un fiume di euro, che viene prodotto al Sud ma prende la via del Nord. 
Tra di loro anche un laureato in biologia da 110 e lode con moglie laureata in informatica e un figlio  a carico che non poteva fare di meglio. Salvo poi trasferirsi a Torino, a fare finalmente il suo lavoro  e quindi impoverire ancora una volta il tessuto socio-economico locale. 
E’ una storia esemplare. 
Tutt’ora nei discorsi di chi muove l'economia del Sud è evidente una concezione dei limiti angusti in cui ci si trova ad operare. 
Un industriale pugliese lamentava di dover far partire i suoi container diretti in Cina da Salerno piuttosto che da qualche porto in Puglia…..
Se sono queste le basi per lo sviluppo e l’uscita della emarginazione del Sud allora di subalternità parleranno anche i nostri pronipoti.
Le energie più brillanti e vivaci che vanno via colpiscono doppiamente
Ne viene danneggiata l’economia, ne viene danneggiata la società meridionale. 
Il prelievo imposto alle famiglie che finanziano gli studi altrove e non vedono ritornare i propri figli nel luogo d’origine è una ulteriore tassa sul macinato.
E’ una tassa sul sottosviluppo poiché i ritorni di questo investimento non ricadranno mai più al Sud o quantomeno nel luogo d’origine.
Non solo quel reddito prodotto, più o meno faticosamente, qui viene investito e consumato altrove, per cui se ne giova il commercio, l’Università, le ditte che con questa lavorano e infine i proprietari di immobili ma il risultato di questo investimento è il non ritorno del laureato. 
E’ la sua ascesa all’empireo delle professioni qualificate e il definitivo distacco dal mondo che lo ha generato. 
Di fatti  un ripudio, giustificato e logico, ma sempre ripudio è. 
La base del razzismo che verrà è la perpetuazione delle condizioni di inferiorità economico-sociale di un territorio. 
Sembrano le lezioni della scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani ma è proprio così.
Che questo non faccia  bene al Paese pochi sembrano volersene accorgere. Che lo sradicamento in Italia sia sempre un fatto traumatico è spesso realtà sottaciuta.
La stessa socialità del Meridione viene messa in discussione dalle sue giovani generazioni che avvertono, con la lucidità e l’intuitività che gli è propria, la consapevolezza di trovarsi lontano dai vari ombelichi del mondo. 
Con il risultato di far scomparire anche quello che di buono ha il Sud, cioè le sue piazze animate di sera, il non sentirsi solo ingranaggi di un meccanismo, ma persone da fermare, che meritano cinque minuti del proprio tempo. 
Da qui la acritica accettazione di stili e modi di vita che nulla hanno di meglio di quelli da tempo in uso, in queste lande.
Per molti giovani meridionali, con alto o basso livello di istruzione, l’imperativo è spendersi non più sul proprio territorio ma laddove la “civiltà” sembra aver attecchito meglio.
Se la forza dell’oppressore sta nella debolezza della mente degli oppressi, allora il dato più importante con cui deve fare i conti il fenomeno del razzismo del nord nei confronti del sud è lo stesso rifiuto con cui una parte dei meridionali guarda – ancora oggi - ai propri luoghi di provenienza. 
Il razzismo che è trascorso e quello che verrà nasce da un rapporto sbagliato con i propri posti di origine. 
Vissuti alla meglio come posto dove rincantucciarsi dai genitori, come nostalgici luoghi del ritorno all’infanzia e alla terra natìa  e non come luoghi dove costruire una civiltà a tutti gli effetti pari e allo stesso tempo, necessariamente diversa, da  quella offerta dai grandi crocevia dello sviluppo mondiale. 
Anche la -  a volte superiore - qualità di vita, viene scambiata dai settentrionali e dagli emigrati di ritorno per arretratezza, per la concessione di lussi al di sopra delle proprie possibilità. 
Viene fuori il pregiudizio, conscio o inconscio di chi vive la realtà, non sempre esaltante, delle grandi concentrazioni urbane. 
Si dice “è da terroni” di  tutto quello che è diverso da ciò che è considerato fine o di classe. 
Però lei è diverso dai meridionali, più colto, più sveglio….” “No, signorina, guardi che come me giù ce ne sono a migliaia…”. 
E’ una delle tante frasi che sottilmente svela il perdurante razzismo. Diventa difficile apprezzare nel mondo del pensiero unico la differente e libera priorità data ad un aspetto piuttosto che ad un altro dell’umano esistere. 
D’altronde, bisognerà convenirne, eliminare le cause dei fenomeni migratori non diminuirebbe affatto il razzismo, che è solo una delle facce dell’intolleranza umana.


ORIGINI E STORIA DEL FENOMENO MIGRATORIO INTERNO

Non è necessario andare molto a ritroso per scoprire come mai al Sud si é subalterni, quindi sicuri vittime di razzismo. 
Ci attarderemmo in complicate analisi storiche, sociali, economiche e culturali, perdendo il senso del nostro ragionare nel lungo lavorio dei secoli trascorsi, giustificandolo quasi il pregiudizio, senza capire perché qui e ora siamo messi così.
Sono quindi illuminanti i resoconti riesumati ne “L’Orda”, ultima fatica di Gian Antonio Stella, giornalista del Corriere della Sera. 
Ecco che aria tirava al Sud prima dell’arrivo dei piemontesi per bocca stessa di uno che stava con loro, il capitano del Corpo Reale di Stato Maggiore Alessandro Bianco di Saint Joroz:

Il 1860 trovò questo popolo vestito, calzato, con risorse economiche. 
Il contadino possedeva una moneta. Egli comprava e vendeva animali, corrispondeva esattamente gli affitti, con poco alimentava la famiglia, tutti in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale”.

Che cosa successe dopo lo spiega invece Enrico Panirossi, un ufficiale dei Carabinieri, settentrionale, sceso nel Mezzogiorno ed autore di uno Studio amministrativo, politico ed economia pubblica

Lungo i cinque anni della Liberazione si triplicarono addirittura le imposte, ma la terra non triplicò i suoi frutti e il suo valore”.

Amen.
Tutti conoscono bene la realtà che fin dagli ultimi anni del 1800 ha caratterizzato la storia sociale italiana. 
Grandi masse di italiani  hanno affollato un po’ tutto il Globo e, ancora tra gli anni 1950 e il 1970, milioni di meridionali sono stati attratti dal triangolo industriale.
Vuoi per  impossibilità netta di trovare lavoro a condizioni dignitose o per impossibilità relativa di trovarne nel proprio campo. Da sempre la pubblicistica ha insistito sul valore positivo del contatto fra le differenti parti d’Italia. 
Come non ricordare le retoriche pagine di “Cuore” il best seller di Edmondo De Amicis ambientato a Torino? 
Che questo abbia unito i destini del Paese e ci abbia fatto diventare (nuovamente ?) consci di essere italiani appare in questa sede più retorica che altro. 
E questo non per una discussione o demolizione ontologica del concetto di nazione ma perché gli effetti positivi dell’unità d’Italia sembrano essere ricaduti su una sola parte, fermo restando che  questa  (l’unità) fosse e sia inevitabile. 
Va ribadito che le fortune di un luogo, una cultura, una popolazione sono state quasi sempre ottenute con la spoliazione di un altro, il sinallagma di questi speciali contratti d’area è stato sempre violato come diciamo con brutto termine giuridico. 
Il do, in pratica non è quasi mai coinciso con il des.
Tuttavia per capire di sud e di razzismo bisogna conoscere la geografia. 
Non è possibile capire la vera storia, anche economica di un popolo, se non si capisce bene l’impatto che il territorio e il clima hanno su di esso. 
Già  Victor Von Hagen, insigne etnografo americano, ammoniva che la esatta comprensione della storia dei popoli passava per la conoscenza puntuale del paesaggio che questi abitavano. 
Gioverà ricordare che la scarsità d’acqua è ancora uno dei problemi del Sud e perfino capoluoghi di regione, vedi Palermo, combattono ancora contro quest’obbrobrio del 21° secolo. 
Si possono avere le fibre ottiche ma non si può avere un buon sistema di approvvigionamento idrico. 
E’ il paradosso del Mezzogiorno.
Non c’è del resto tutt’ora al Sud la possibilità concreta di superare il gap direi esistenziale che lo divide dal Nord. 
E questo a prescindere dalla nebbia e dal sole, che pure sono state efficacemente indicate come condizioni base per lo sviluppo di un diverso e a volte antitetico modus vivendi.
La miseria che ci ha attanagliato per anni e il non avere mercati per i nostri prodotti e acqua per le nostre colture hanno fatto il resto. 
E’ per questo che da più parti si è avanzato il discorso sul come e con quali soldi è stata finanziata l’unità d’Italia. 
E’ per questo che qualcuno ancora fonda nostalgiche associazioni che rievocano il Regno delle Due Sicilie o più realisticamente cerchi di interpretare ragioni e dinamiche del brigantaggio e della sua repressione da parte degli eserciti piemontesi.

Manlio Rossi Doria, senatore  e professore di Agraria scomparso nel 1988 a 83 anni scriveva: “Personalmente non avrei mai creduto di poter vivere tanto a lungo da vedere la fine della miseria contadina. 
Oggi la miseria contadina – la miseria di gente che non aveva scarpe, che viveva nelle capanne o in una sola stanza, che non aveva da mangiare a sufficienza … non esiste più e questo sostanziale progresso è dovuto alla emigrazione”. 
Se i Lombardi hanno avuto il giogo austriaco che gli ha forse instillato l’amore per la precisione e per quella regolarità di comportamenti che sono alla base della nascita di una cultura industriale, il Sud, per un motivo per l’altro non si è “giovato” di queste influenze. 
Ci sono stati arabi, svevi, francesi,  spagnoli, borboni dai quali i meridionali non  hanno saputo difendersi e alla mercè dei quali sono stati lasciati quando hanno provato a ribellarsi (vedi caso della Repubblica Napoletana del 1647).
Ciò che è peggio il Meridione non ha saputo mantenere o  addirittura produrre un’autonomia culturale e un assetto economico che spingessero al benessere e all’orgoglio di sé le popolazioni. 
Se tutti in Italia e nel mondo sanno chi sono stati i Romani o gli Etruschi, sono poche le  persone che sanno chi lontanamente fossero gli Iapigi, i Peuceti, i Dauni…. 
O che esisteva qui, duemila anni fa, una rete di colonie magno greche, una civiltà gaudente e sfacciata ricordata dallo poeta e retore classico Decimo Giunio Giovenale (Aquino,55/60 d.C.-Roma, circa 167 d.C). 
Gli stessi meridionali sembrano in alcuni casi dimentichi del loro passato e nient’affatto determinati a costruirsi un futuro migliore.
Il concetto di identità culturale e della sua strenua difesa, lungi dall’essere una tentazione intellettualistica è invece un carburante essenziale nella costruzione dell’autonomia e della libertà di un popolo.
Anche se l’esercizio spinto di questo diritto può sconfinare nella politica egemonica. 
Del resto bisognerà finalmente riconoscere che la corsa  dei paesi oggi sviluppati non si sarebbe determinata, e cesserebbe, se non ci fosse stata in passato l’innegabile spinta dalla manodopera schiavile o semi-schiavile e oggi della manodopera basso prezzo. 
Gli enormi capitali che con questo fattore si sono generati e il sistematico saccheggio delle ricchezze naturali dei paesi che con eufemismo ridicolo chiamiamo ora in via di sviluppo hanno fatto il resto. 
Le linee attuali di sviluppo economico non sembrano dissimili, se non nella forma e nel progressivo alleggerimento, dai carichi imposti in passato alle popolazioni “inferiori”. 
Il Sud, da questo punto di vista è la risultante della sua collocazione geografica: marginale rispetto al cuore europeo, più vicino a Tripoli  o a Tirana che a Milano. 
E’ il perfetto esempio del cugino povero, per le cui disgrazie dopo un secolo di studi e di interventi politici, non si capisce ancora se la colpa sia sua o dei suoi prossimi parenti ricchi. 
O - come è più realistico pensare - di entrambi.
Gran parte del capitale umano che qui si genera venne e  viene disperso, in una sorta di diaspora silenziosa. 
L'emigrazione dal Mezzogiorno, vista sotto molti aspetti  come uno dei principali fattori del boom economico ha praticamente (negli anni Cinquanta e Sessanta) privato l'Italia Meridionale delle sue migliori energie produttive, le più importanti, le più forti. 
Essa è stata, in gran parte, un'emigrazione proveniente dal mondo contadino, ma c’è stata anche una imponente emigrazione di tipo intellettuale, e questo non bisogna dimenticarlo.
La storiografia ufficiale d’altro canto sembra tutta protesa a rivalutare la necessità, l’ineludibilità dell’Unità d’Italia e a bollare come sterili polemiche ormai archiviabili quelle sul ruolo preponderante che il Piemonte ebbe nella decisione sul futuro della costituenda Italia.
Qualche storico (Villari) punta il dito sulla distruzione, in alcuni casi anche fisica (Portella delle Ginestre) di chi ipotizzava una storia migliore. Altri invece insistono sull'emigrazione di un numero consistente di persone che potevano dare una reale svolta alla “causa” meridionale. 
Su queste basi storiche e su queste considerazioni  si innestano le cause attuali alla base della discriminazione nord sud che va intesa in senso duale ed ha molte sfaccettature.

DALLI AL TERUN

Negli anni del grande esodo meridionale, coinciso con gli anni dell’immediato dopoguerra, i proprietari di immobili, per non vedere rovinate le loro case, scrivevano “non si affitta ai meridionali”. 
I terroni sporcavano ed erano sporchi essi stessi. 
Non sapevano lavorare e molti settentrionali iniziavano la loro giornata di lavoro inveendo contro i “térun de la malora”. 
Dei tanti, che riuscivano a vivere decorosamente la loro condizione di lavoratori e di emigrati, che si esprimevano in italiano corretto si diceva tu non sembri meridionale…..”. 
Era un complimento ma ti stavano anche dicendo che venivi da un posto infame: le tue buone qualità potevano essere un incidente della storia
I settentrionali non avevano tutti i torti: le scalinate dei grigi e uniformi palazzi delle periferie di Torino o di Milano erano posti in cui i bambini urinavano e nell’immaginario della gente del Nord “i terun ne facevano troppi”. 
La storia della Italia è passata anche per quelle scalinate e per queste famiglie smembrate per cui una parte inseguiva il miraggio, l’altra restava e resisteva. 
Quasi tutti al Sud hanno parenti al Nord.
I ritorni degli emigranti, i loro usi e pensieri, sembravano fino a pochi anni fa, il contatto con un’altra civiltà.
A volte razzisti sono anche i meridionali che hanno vissuto duramente il processo di integrazione. 
C’è, da parte loro, un surplus di attenzione verso gli episodi che rafforzano i luoghi comuni negativi sulla propria etnia o zona di provenienza. 
I non integrati disonorano il posto da cui arrivo”. Sono “razzista quando gli altri non rispettano le regole”. 
E’ il primo segnale della intolleranza - molto spesso latente – che è prodotta dalle difficoltà grandi e piccole della convivenza quotidiana quando i modi di fare e d’essere delle culture e delle etnie cozzano. 
I razzismi si moltiplicano e vittime e carnefici si confondono. 
Si individuano i tratti fondamentali di un popolo a partire dall’osservazione dei vicini, salvo poi smentire il luogo comune in presenza di fatti positivi.
Del resto anche chi ha abitato e lavorato in città tradizionalmente aperte all’altro ed esempio di civiltà come Bologna, conclude mestamente che “i bolognesi sono razzistinon come i trentini ma….”.
Si resta scettici ma chi parla, parla per esperienza diretta
I razzisti di ogni latitudine troveranno sempre sconcertante la penetrazione di aree volta per volta considerate aliene da contaminazioni.
La parola “terrone” esemplifica in maniera immediata il modo con cui per tanto tempo la parte progredita d’Italia ha guardato ai cugini poveri del Sud. 
Dico cugini e non fratelli non a caso: le ultime spinte secessioniste sono un chiaro esempio di quanto ci senta tutti fratelli…..
Che i meridionali coltivassero e coltivino prevalentemente la terra e non abbiano tutt’ora stabilimenti industriali o gruppi finanziari decisivi nella storia economica di questo paese è un fatto incontrovertibile. 
In questa loro vocazione tutt’ora osannata dai politici sta la loro grandezza e la loro condanna. 
Nella cultura occidentale tutto ciò che sa di terra e di lavoro fisico degrada immediatamente, un imprenditore agricolo è meno importante di un industriale a parità di fatturato e occupazione della propria azienda. 
E questo se non per il supposto minore know how tecnologico che le due differenti attività comportano, almeno per l’importanza strategica di una azienda non agricola.
Le aggregazioni industriali del Sud sono molto spesso sedi decentrate dove i meridionali non hanno il comando e tantomeno percepiscono i principali proventi di quelle attività. 
La storia del Sud è una storia di sudditanza e non di autonomia, la stessa mancanza di un retroterra storico preciso con relative mitizzazioni ne è un esempio fortemente indicativo. 
Se Milano è la capitale economica, fino a pochi anni fa anche quella morale, se Roma è la capitale politica, Napoli, Bari e Palermo cosa rappresentano nell’immaginario collettivo?  
Da questa dimensione minore del Sud nasce e si alimenta l’attuale razzismo alimentato dall’atteggiamento veramente canagliesco dei media, del resto indotto dai pregiudizi imperanti. 
Lungi dal non riconoscere i mali e i limiti delle popolazioni meridionali va ricordato che l'attuale rappresentazione del Sud non fa che alimentare il complesso di supposta superiorità dei settentrionali. 
E questo anche se il fenomeno è in netta diminuzione per le complesse e crescenti interrelazioni che legano il paese. 
Ma il divario economico non accenna a diminuire. Fino a che questa condizione permarrà, rimane chiaro il ruolo subalterno del Sud e la vocazione dei suoi abitanti a trovarsi al gradino inferiore. Tutti sanno – come dimostra la progressiva evoluzione dell’umanità - che non c’è superiorità di una razza rispetto ad un'altra.
Di certo c’è un patrimonio collettivo di comportamenti nel quale è possibile individuare una meridionalità o una settentrionalità. 
Ma impiantare su questo una nuova divisione sociale o ancor peggio territoriale, come sembrano voler fare alcuni, è un ritorno al passato. 
Prima ancora che dalla Storia progetti di questa portata dovrebbero essere sepolti da una nostra risata e non portati in Parlamento.

* Mini saggio per SOS Razzismo scritto l'8 Dicembre del 2004 RIPRODUZIONE RISERVATA.

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